Nell’Etica nicomachea Aristotele sostiene che è meglio “non tenere conto degli affetti personali quando si tratta della salvezza della verità”. Ma già in Platone si trova un tale concetto quando nel Fedone si fa dire a Socrate che i suoi interlocutori dovevano preoccuparsi meno di lui e più della verità.
Anche Cicerone nelle Tusculanae Disputationes (I, XVIII) afferma che preferisce sbagliare con Platone piuttosto che sostenere cose vere con i pitagorici. Il paradosso del logico Alfred Tarsky, secondo cui “Platone è un nemico, ma nemica più grande è la falsità”, porta a dedurre che nessun rapporto di amicizia dovrà essere per noi più importante della verità.
Tirando le somme: l’amicizia trova un limite invalicabile nella fedeltà connessa con la relazione verso l’amico, ma siccome è massimamente discrezionale stabilire in che cosa consiste la verità, il rapporto fra verità e amicizia porterebbe a considerarci esonerati dall’obbligo morale insito nella relazione con l’amico.
Quando si tratta di scegliere fra due cose “sacre”, privilegiando ora l’una ora l’altra, si commette un tradimento, che tuttavia non è mai “assoluto”, sia che si scelga la fedeltà all’amicizia o alla verità.
Ho cercato di riassumere come meglio ho potuto quanto scrive Curi in un articolo apparso su “La Lettura” del 2/12/2017. Se ho sbagliato qualcosa, chiedo scusa perché le mie capacità di mettere a fuoco problemi filosofici sono molto modeste e a me, più che a risolvere questa, che non sono proprio sicuro se sia opportuno chiamare antinomia o in qualche altro modo, sta a cuore una questione più vasta che comprende in blocco la cultura europea.
Se Platone e Aristotele, come sostengo da anni, fossero solo pseudonimi del falsario senese che nel XIV secolo compose le opere da lui attribuite non solo ai due massimi filosofi, ma anche a tanti altri autori greci e latini, Cecco Angiolieri, il vero autore dei surrogati di una gran massa di capolavori scomparsi nel buco nero delle invasioni barbariche, con questo piano mirò a riempire le lacune della cultura europea creando una produzione letteraria con cui si prese gioco dell’umanità, della sua logolalia e delle sue convinzioni talvolta aleatorie e assurde.
Si nascose non solo dietro le opere attribuite a Platone e a Aristotele, ma anche anche dietro quelle molto numerose che fanno capo a Cicerone, un bravo avvocato e un influente uomo politico trasformato dal senese in letterato di prim’ordine e perfino in specialista capace di risolvere almeno in parte le difficoltà testuali, talvolta insormontabili, presenti nel De rerum natura del poeta epicureo Lucrezio, sconvolto e portato alla pazzia e alla morte dagli effetti di un filtro d’amore.
Come testimone autorevole di questa storiella, capace di far nascere non pochi dubbi, si presenta addirittura Girolamo, grande letterato innalzato alla santità dalla Chiesa per i suoi meriti di traduttore dei testi sacri, ma forse più precisamente un rielaboratore dotato di idee molto personali sconfinanti nell’eresia.
Nessun altro se non un grande giullare colto come Cecco (il maestro tuttora sconosciuto di Dante Alighieri), in grado di servirsi alla perfezione di lingue morte e vive europee, avrebbe potuto architettare questo piano letterario incredibile.
I posteri, orgogliosi del proprio glorioso passato, da secoli continuano a ritenere solido e affidabile un imponente castello di carte, incuranti di recenti ipotesi, ritenute folli, di un maestrucolo come me, tagliato fuori dai canali culturali che contano in Italia e nel mondo occidentale.
Il fatto è che Cecco non si limitò a un piano destinato dopo poco la sua morte a rivelarsi una buffonata piena di irrisioni nei confronti dei dotti che ne avrebbero sostenuta l’autenticità. Il senese ci lavorò sopra con tanto impegno geniale e serietà, che nonostante qualche voce isolata contraria, un favore incondizionato e quasi unanime al riguardo è bastato a eliminare ogni dubbio per secoli. Tanto più che all’inizio un atteggiamento contrario sarebbe stato considerato nocivo alla gloria di Firenze, in massima parte basata sulla Commedia: il pensiero che Dante si fosse limitato a scrivere quel solo capolavoro non passò nemmeno nell’anticamera del cervello dei suoi concittadini più colti.
Così sul nome e cognome dell’Alighieri, apposti dal falsario nel frontespizio di svariate opere dantesche cosiddette minori, nessuno ebbe a che ridire. In chi avesse invocato una maggiore cautela si sarebbe visto come il nemico di una città ricca per le sue intraprese industriali e commerciali, ma non certo eccelsa per cultura fino al XIV secolo inoltrato.
Provate oggigiorno a sostenere non solo in qualche ambiente universitario, ma anche in una piazza di Firenze che la Vita nova o le Rime, per di più contenenti molte espressioni tipiche del senese antico, sono dei falsi: vi andrà di lusso se sarete trattati solo a male parole.
In fondo, quando Platone, Aristotele e Cicerone parlano dei rapporti umani, lo fanno animati da grande serietà. Chi mai avrebbe potuto arguire dalle loro parole e dai loro atteggiamenti propri di grandi pensatori che in essi fosse presente qualche intento di irrisione o vendetta contro i propri simili?
Oggi su Cecco siamo venuti a conoscere tante cose finora ignorate. Ci eravamo fatta l’idea, ricavata dall’unica opera con il suo vero nome, vale a dire quel centinaio di sonetti composti in senese antico, che oltre a un bravo poeta realistico fosse una semispecie di giullare incline ai banchetti, alle allegre comitive spensierate e spenderecce, agli amori con le donne giovani e belle, al gioco, tutti vizietti capaci di azzerare un’eredità paterna cospicua.
Non sta proprio così. Questo bisessuale, per di più eretico, oltre che dedito alla cultura enciclopedica, fu un grande conoscitore delle lingue europee maggiori e perfino della lingua ebraica.
A mio parere quei sonetti in gran parte costituiscono una creazione fuorviante escogitata dal senese per lasciare di sé un’immagine lontana dalla realtà. Non c’è alcun dubbio che Cecco avesse la passione della buona tavola: ce ne hanno lasciate le prove Dante con il Ciacco del canto dei golosi e Cecco-Boccaccio stesso nel Decameron.
La cultura dell’Angiolieri fu vasta, profonda e enciclopedica, come per esempio testimonia il suo Tresor, ma quando sotto le false vesti di Iacopone da Todi ne assegna in una Lauda la colpa, più che il merito, a suo padre Angioliero descritto come un tiranno, si ha la netta impressione che dica una bugia: la cultura Cecco se la fece con quanto nei suoi viaggi per tutta l’Italia e per l’Europa riuscì a trovare del poco sopravvissuto alle invasioni barbariche, ma soprattutto con doti eccezionali di fantasia mediante la quale animò e arricchì le scarse notizie del mondo antico provenienti per lo più da fonti disparate e da tradizioni talvolta leggendarie.
Quanto alla formazione culturale dell’Angiolieri, dopo che io, dimostrando con l’analisi del Tresor l’inconsistenza culturale di Brunetto Latini, ho sostenuto che il senese fu il vero maestro di Dante, se le mie ipotesi saranno accolte, gli studiosi negli anni futuri dovranno precisare e decidere se Cecco, partendo dal proprio mondo culturale, sia stato in grado di falsare l’intera tradizione umanistica.